Certo, il momento non è dei migliori ma, nel mio piccolo, sono molto felice di essere qui oggi a parlarvi di qualcosa di bello; la passione che mi accomuna a tutti voi mi porta a fare scoperte meravigliose e poterle condividere mi regala un senso di positività, che spero possiate provare anche voi.
Come chi mi conosce di sicuro già sa, il mio entusiasmo nei confronti delle opere che leggo si moltiplica quando scopro di avere a che fare con quelle che io chiamo le “storie di vita”: quante volte vi ho raccontato di essere stata trascinata con tutte le scarpe in una vicenda, poiché rafforzata dell’elemento del realismo, dell’autobiografia?
Daniele è un giovane poeta oppresso da un affanno sconosciuto, "una malattia invisibile all'altezza del cuore, o del cervello". Si rifiuta di obbedire automaticamente ai riti cui sembra sottostare l'umanità: trovare un lavoro, farsi una famiglia... la sua vita è attratta piuttosto dal gorgo del vuoto, e da quattro anni è in caduta "precisa come un tuffo da olimpionico". Non ha più nemmeno la forza di scrivere, e la sua esistenza sembra priva di uno scopo. È per i suoi genitori che Daniele prova a chiedere aiuto, deve riuscire a sopravvivere, lo farà attraverso il lavoro. Il 3 marzo del 1999 firma un contratto con una cooperativa legata all'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. In questa "casa" speciale, abitata dai bambini segnati dalla malattia, sono molti gli sguardi che incontra e che via via lo spingeranno a porsi una domanda scomoda: perché, se la sofferenza pare essere l'unica legge che
governa il mondo, vale comunque la pena di vivere e provare a costruire qualcosa? Le risposte arriveranno, al di là di qualsiasi retorica e con deflagrante potenza, dall'esperienza quotidiana di fatica e solidarietà tra compagni di lavoro, in un luogo come il Bambino Gesù, in cui l'essenza della vita si mostra in tutta la sua brutalità e negli squarci di inattesa bellezza. Qui Daniele sentirà dentro di sé un invito sempre più imperioso a non chiudere gli occhi, e lo accoglierà come un dono.
Un’esperienza analoga si è ripetuta qualche giorno fa quando, già in quarantena e accompagnata da uno stato d’animo nuovo e a tratti sconosciuto, mi sono imbattuta in “Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli: il merito è di Mondadori, che ha pubblicato il romanzo e me l’ha proposto, cui sono come sempre molto grata. E non è finita qui perché ciò che sto per raccontarvi è frutto di una telefonata che ho potuto fare all’autore, che ringrazio profondamente.
Concludo questa mia lunga premessa augurando a tutti voi di imbattervi in storie belle come questa e, soprattutto, di riempirvi sempre occhi e cuore di parole belle, facendo tesoro delle esperienze degli altri.
E: Vorrei partire dalla sensazione più forte che ho provato, leggendo il romanzo: nonostante il tema trattato sia difficile, un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) attuato nei confronti di un ragazzo di vent’anni, il tono della tua scrittura è colmo di speranza e di positività. È stata una scelta ponderata o è una direzione che ha preso la scrittura in corso d’opera?
DM: Essendo la storia raccontata frutto di una mia esperienza diretta, vissuta in prima persona, il tono della scrittura rispecchia me stesso: la mia individualità è composta da una maggioranza di quella che io chiamo la “parte nera” e, per questo motivo, ho sempre cercato di aggrapparmi con tutte le mie forze alla “parte bianca” della vita perché quando stai male l’unica cosa che desideri è stare bene, ricevere positività.
E: A questo proposito, che cosa pensi sia fondamentale per non soccombere alla “parte nera”? Tu ce l’hai fatta da solo o ci sono stati fattori esterni che ti hanno aiutato e supportato?
DM: Senza dubbio l’arte, la scrittura e la letteratura in modo particolare. Penso che l’età decisiva per una persona sia quella che va dal diciassette ai ventitré, ventiquattro anni, è il momento in cui, volenti o nolenti, tutti noi ci orientiamo prendendo una direzione più o meno precisa; a quel punto della mia vita sono subentrate la scrittura e la letteratura, che mi hanno fornito un rifugio ma accendendomi una speranza, che ho deciso di seguire. Quello che ho imparato, e che cerco di trasmettere ai più di 7.000 ragazzi che incontro in giro per l’Italia da diverso tempo, è che non si può chiudere la vita in una gabbia fatta di parole della psichiatria, esattamente come non si può pensare di vincere la battaglia contro il male: quel che conta davvero è affrontare la difficoltà costruendo la propria difesa, usando un mattone dopo l’altro, esperienza dopo esperienza.
E: Ti chiedo di togliermi una curiosità viscerale: quanti e quali dei personaggi di “Tutto chiede salvezza” sono realmente esistiti e riportati su carta? E quanti e quali sono solo ispirati oppure frutto di fantasia?
DM: Posso dire certamente che la prima scena del libro, il risveglio in clinica, e i personaggi che lo hanno costellato corrisponde a verità: la stragrande maggioranza degli elementi presenti nel libro sono riconducibili a quanto accadde durante quell’esperienza e puoi stare certa che, nel caso in cui qualche dettaglio non lo fosse, è sicuramente avvenuto realmente ma in un momento diverso della mia vita.
E: Tu sei un poeta, le tue pubblicazioni sono sempre appartenute a questo genere fino a quando non è nato “La casa degli sguardi”, il tuo primo romanzo; com’è avvenuto il passaggio tra i due stili narrativi? È stato ponderato o è scaturito da qualcosa in particolare?
DM: Anche in questo caso, la premessa è che “l’esperienza dà vita a tutto”: anche le mie poesie sono sempre state autobiografiche e, in qualche modo, il mio stile aveva già degli elementi narrativi al suo interno. Una notte, in balìa dell’insonnia, ho ripensato ad un incontro avvenuto tempo prima con una persona che è diventata una figura centrale della mia vita, A questa persona ho dedicato una poesia che, a detta di chiunque l’abbia letta, sarebbe il mio lavoro migliore in assoluto. È stato a quel punto che mi sono reso conto che quell’incontro, quella figura aveva ancora qualcosa da dire, il suo messaggio non si era esaurito grazie alla mia poesia, e che quel qualcosa avrebbe avuto necessità di una narrazione. Quello che penso, e che ho capito nell’arco degli anni, è che la narrativa non deve essere vista unicamente come finzione, ma che il valore della lingua del vero sia universale e si traduca in un’espressione nuova, diversa da quella cui siamo abituati oggi.
E: Facciamo un piccolo passo indietro e colleghiamoci all’aspetto cronologico dei tuoi romanzi: seppur sia uscito prima “La casa degli sguardi”, che è ambientato nel 1999, “Tutto chiede Salvezza” è ambientato cinque anni prima ma è stato pubblicato nel 2020, rispetto al 2018 del precedente romanzo. Quanto tempo dopo l’accaduto hai cominciato a trasferire su carta l’esperienza di “Tutto chiede salvezza”?
DM: dall’evento alla prima stesura sono passati vent’anni, un tempo durante il quale ho potuto non solo metabolizzare l’esperienza ma anche assimilarla e racchiuderla all’interno della mia memoria, diventando così custode di un avvenimento che ho imparato a guardare da un diverso punto di vista. Credo fermamente che lo scrittore non debba essere solo osservatore, quanto piuttosto un giocatore di quella partita che sta per raccontare: con il tempo il ricordo impresso nella memoria si trasforma e assume una dimensione più simile a quella del sogno, ciò ti permette di prenderne le giuste distanze che ti portano poi a trasmettere il messaggio che decidi di attribuirgli.
E: si può dire che i tuoi libri nascano da un’urgenza di comunicare?
DM: assolutamente sì ma la parola che trovo si addica di più, rispetto ad urgenza, è tensione: la potenza di un messaggio non si esprime per forza con l’uso di un linguaggio forbito o con la trasmissione di un concetto complesso, quanto con una dote di originalità e autenticità che è diversa in ognuno di noi.
E: Ringraziandoti del tempo che mi e ci hai dedicato, ti faccio un’ultima domanda che, nuovamente, è una mia curiosità un po’ frivola: come mai non ti troviamo sui social?
DM: Ci sono tre diversi aspetti legati a questa scelta: il primo riguarda l’aspetto negativo dei social network, il fatto che permettano delle manifestazioni di aggressività verbale, quelle dei cosiddetti haters, che reputo eccessivi ed evitabili. Il secondo aspetto è quasi logistico: ho timore di non saperli gestire e non mi piacerebbe rischiare di non rispondere a qualcuno o di non svolgere correttamente un lavoro. In ultimo, ma non in ordine di importanza, viene una mia personale sfida: i social esistono da vent’anni, certo ma, prima di loro, esisteva il passaparola, che credo abbia ancora oggi una grande forza, a cui sento di potermi affidare. Ricorro comunque ai mezzi più classici, come il telefono e l’email, che utilizzo per relazionarmi e considero sempre come un preludio all’incontro fisico, che si spera avvenga; sul mio sito ho impostato un form di contatto, che mi permettere di rispondere sempre e comunque a chiunque desideri scrivermi.
Io spero davvero di essere stata in grado sia di trasmettere correttamente i messaggi che Daniele Mencarelli ha voluto condividere con tutti noi sia, soprattutto, di rendere giustizia ai suoi pensieri e alle sue riflessioni che, come certamente avrete capito, mi hanno arricchita, e sono andati ad unirsi a quelli che ho interiorizzato in seguito alla lettura del suo romanzo.
Non vedo l’ora di poter leggere le altre opere nate dalla sua penna, che non mancherò di condividere con voi e concludo, sperando di non risultare retorica, invitandovi con estremo calore a recuperare i suoi scritti: per quanto la difficile situazione che stiamo vivendo abbia messo dei limiti alle nostre abitudini quotidiane, per fortuna esistono i libri digitali e le spedizioni di libri fisici tramite acquisto online, trovate qui sotto tutti i link utili per procedere all’acquisto.
Scarica l'e-book da uno store digitale:
Nessun commento:
Posta un commento