venerdì 21 settembre 2018

Giochi cattivi - Intervista a Massimo Donati coll. Feltrinelli Editore

Buongiorno Amici dei Libri e buon venerdì!

Oggi vi porto un'intervista che ho avuto modo di fare, grazie a Feltrinelli Editore, a Massimo Donati, autore di "Giochi cattivi", uscito lo scorso aprile.


Un'amicizia tra due ragazzini, un incidente che li dividerà per sempre, un segreto che ne nasconde un altro: Donati ci porta in montagna, raccontandone il lato oscuro, tenebroso, inquieto.

"Donati è uno scrittore con un talento naturale, e Giochi cattivi è un romanzo letterario che tiene il lettore agganciato alla pagina e intanto lo spinge a esplorare le domande più profonde su infanzia, famiglia, vergogna e potere" - Michael Heyward, Text Publishing

Roberto e Mario sono in quell'età in cui non si è più bambini ma non si è ancora ragazzi. È l'estate del 1981 e loro giocano a diventare grandi, a Madonna della Neve, piccola frazione di Avio, in provincia di Rovereto. Dividono il mondo in bambini-bambini, i più disprezzabili, come Paolino, il fratello di Mario, e bambini-adulti, come loro; saggiano la reciproca resistenza al dolore colpendosi con bastoncini di legno; stanano le bambine che frequentano una colonia dando fuoco a qualche albero intorno alla struttura; scavano una buca per saggiare le proprie paure. La prova più grande? Tentare l'ascesa fino alle Colme, una passeggiata impegnativa e pericolosa anche per gli escursionisti più esperti.
Nella vacanza Roberto è accompagnato dalla nonna, i genitori sono rimasti in città perché la madre è malata, gravemente - nessuno ancora lo ha detto a Roberto, che però intuisce. Il peggioramento della salute di lei impone un rientro anticipato in città, tuttavia prima di concludere la loro estate insieme i due amici decidono di disubbidire e affrontare da soli il sentiero per le Colme, rischiando tutto, anche l'innocenza. Trent'anni dopo, la morte del padre costringe Roberto a tornare nella villa di famiglia, scivolando in un crescendo di rivelazioni e svelamenti verso il passato che aveva rimosso, verso quell'ultima estate in montagna.

1. Mi sorge spontaneo iniziare con una domanda sulle montagne che, per puro caso, mi hanno vista crescere e occupano quindi un posto speciale nel mio cuore: che rapporto ha oggi con loro? Torna ancora in vacanza negli stessi luoghi dove passava le tre settimane estive da bambino?

M.D.: La montagna continua a essere per me meta preferenziale per le vacanze estive. La montagna che preferisco è quella della stagione più calda o di quelle intermedie. Non abitandoci anche per motivi di lavoro, la vita in montagna d’estate, le lunghe passeggiate, sono ancora attese con trepidazione. Negli ultimi tempi con la mia compagna abbiamo cominciato a prediligere una montagna in quote più alte rispetto al passato, percorsi da rifugio a rifugio, con ampi dislivelli e ore di cammino, ma continuo a rimanere legato a quei luoghi che frequentavo da bambino, ci torno anche nelle stagioni non turistiche, anche se negli anni ho esplorato anche altre montagne, nel centro Italia, con clima e vegetazioni diverse. Per me il paesaggio alpino e l’immersione nella natura hanno un valore superiore al mero intrattenimento. Sono qualcosa che riconnette quella che è la mia dimensione spirituale e umana, al corpo e al mondo. Proprio in montagna penso di aver percepito per la prima volta da bambino qualcosa che potrei chiamare il respiro del mondo, attraverso l’incanto e la bellezza, e anche attraverso la fragilità a cui ci espone. I luoghi che frequentavo allora sono anche molto cambiati, in parte non li riconosco, è mia la nostalgia che c’è nel romanzo per quel tempo in cui l’attitudine al turismo non era così marcata, ma ugualmente rimane un legame indissolubile, che mi ha reso naturale scriverne. 

2. Alla presentazione del libro a Milano abbiamo parlato di alcuni degli autori che hanno segnato la sua vita di scrittore e non solo e, quando ha raccontato del titolo che avrebbe inizialmente voluto dare al libro (La parentesi aperta) definendolo “un’espiazione mancata” non ho potuto fare a meno di pensare a Ian McEwan, è stato più forte di me. Ha anche lui un ruolo nella sua formazione? 

M.D.: Ci sono molti autori del passato e contemporanei che mi hanno influenzato, nel mio modo di scrivere, e in parte anche nei temi che tocco, nelle atmosfere che cerco di restituire. McEwan è sicuramente uno di questi autori, e lo sento vicino quantomeno nell’interesse a scavare nelle inquietudini, a sollevare i sassi sotto i quali si nascondono le paure, i dubbi, i non-detti del vivere, anche se non ho pensato ai suoi romanzi scrivendo il mio. Le citazioni che riporto in apertura di ognuna delle tre parti del romanzo sono omaggi ad alcuni degli scrittori che ho amato in questa fase della mia vita e in qualche modo sono più legati al mio romanzo: Agota Kristof, Philippe Roth, John Williams, ma ve ne sono altri che magari lontani nel tono e nei temi dai romanzi che ho scritto finora, sono stati da stimolo per me, da Moravia a Kazuo Ishiguro, da Erri De Luca a Böll, da Roman Gary a Ammaniti, senza dimenticare Raymond Carver, su cui credo che la mia generazione – forse la prima ad aver avuto a disposizione l’opera completa in traduzione – si sia formata, per lo meno in termini di confronto letterario sui modi di raccontare il mondo contemporaneo. Ma potrei continuare a lungo, dimenticando ancora e ancora autori che adoro, e quindi mi fermo. 

3. Ciò che più mi è rimasto impresso della lettura è il continuo rincorrere il pericolo dei due protagonisti: anche a lei è capitato di dover affrontare delle prove, durante la sua formazione come individuo, quasi come fossero “riti di passaggio” per diventare adulti?

M.D.: Ci sono molti modi di affrontare le età di passaggio, ma sono convinto che tutti abbiamo prove da superare, in alcuni casi più fisiche, in altri casi più psicologiche, ma che lo vogliamo o no, che li riconosciamo o meno in quanto tali, “i riti di passaggio” sono parte del nostro modo di crescere, di essere umani, ma vien quasi da dire, di esseri viventi. Ritengo siano un fatto di natura. Sono spesso delle porte che ci immetono in dimensioni diverse da prima, dopo ci percepiamo come cambiati. Personalmente non sono stato un pre-adolescente turbolento, non mi ricordo di essermi esposto a pericoli che potevano andare troppo lontano. Mi ricordo però giochi che potevano finire male, anche molto male, che io non percepivo come tali. Scavalcare un muro molto molto alto con sopra il filo spinato a dieci anni, o andare a dodici a fare una scalata da solo in alta quota in sandali e maglietta, sono piccole cose che possono finire male. I miei personaggi Roberto e Mario vanno molto al di là, ma il principio è lo stesso, la posta in gioco la medesima.   

4. Quanto si può quindi dire che i personaggi del libro siano autobiografici? C’è qualcuno in cui si riconosce più di altri? Aveva anche lei un quaderno dove, con il suo amico, appuntava tutto ciò che era importante ricordare?

M.D.: I personaggi del libro non sono autobiografici, in quanto il romanzo è per me un territorio di indagine e esplorazione umana che deve andare obbligatoriamente oltre l’autobiografismo. Sento la necessità di fare sintesi e di estrarre dal nucleo di sentimenti, nostalgie e eventi vissuti una espressione più forte e più generale, e allo stesso tempo più specifica. Alcuni personaggi nascono a partire da amici e compagni di viaggio reali, ma poi da li evolvono. Certamente Roberto, Mario, Paolino, Carlo, Leo, Aldeno si nutrono dei molti incontri e rapporti stretti che ho sperimentato in adolescenza e successivamente. L’amicizia profonda che influenza le vite, quella mi sento di poter dire che l’ho provata, per mia fortuna, e sebbene trasfigurata, ho potuto raccontarla. In adolescenza è una forza gigantesca e terribile, ed è quella che muove i miei personaggi. Come tanti altri ragazzi e ragazzini, ho avuto quaderni che si confondevano con gli altri, dove scrivevo fatti e cose, pensieri e desideri, poesie. In alcuni casi li ho condivisi, in altri no. Nel mio romanzo il Quaderno è una porta su un’intimità a due, una fusione dovuta all’amicizia, un’amicizia vera, che porta a confondere le individualità in un Noi collettivo e forte che agisce. 

5. A proposito della tragedia che ha coinvolto Alfredino Rampi e la sua famiglia mi chiedo e, nello specifico, in riferimento alla sua riflessione sulla scarsa protezione dei bambini in quell’occasione dalla brutalità della televisione, cosa pensa potrebbe succedere al giorno d’oggi in una situazione analoga (che Dio non voglia)? Crede che ormai i ragazzini siano talmente abituati alla visione delle atrocità più disparate che potrebbero non impressionarsi o empatizzare?

M.D.: Oggi esistono, anche se non hanno grande potere, associazioni di genitori per la tutela dei minori, anche nell’ambito del consumo televisivo. Per questo motivo la situazione è diversa. C’è una maggiore consapevolezza, anche se non da parte di tutti. Talvolta assistiamo a vere e proprie ipocrisie, che farebbero sorridere nella loro ingenuità se non ci fossero di mezzo dei bambini, e il mezzo televisivo non è l’unico pericoloso da questo punto di vista: oggi la rete e i social network sono forse più pericolosi, in assenza di verifiche e controlli, ma quello che accadde allora non credo possa ripetersi, almeno in Italia: è stato un evento unico, nel suo carattere di fenomeno di massa privo di filtri. Io credo che potenzialmente i minori oggi, con una più facile circolazione delle immagini, siano esposti singolarmente a ben di peggio, ma lo sono come individui, e per questo è nostra responsabilità – come adulti - proteggerli caso per caso, ma non sarebbero coinvolti in un fenomeno di massa, semplicemente perché i media sono più maturi e consapevoli rispetto ad allora. Per il resto, il caso di Alfredo Rampi, universale nella sua tragica lotta per la vita, raccontato come lo fu allora dalla televisione, secondo me avrebbe lo stesso impatto sui ragazzini di oggi: credo non siano né meglio né peggio di come eravamo noi, hanno le stesse paure, gli stessi desideri di essere accettati e amati, di sicurezza, di futuro che avevamo noi, ed è lì che quella vicenda entra, sollevando le inquietudini più profonde.  

6. Trovo che le figure femminili da lei delineate siano molto originali e approfonditamente studiate: come si rapporta a loro? Trova che siano personaggi più complessi da caratterizzare oppure no?

M.D.: In questo romanzo le figure femminili hanno ruoli che le portano a essere fondamentali pur non essendo quasi mai – ad eccezione di Elena, la compagna del protagonista Roberto, da adulto – al centro della scena. E’ come se il loro ruolo si attuasse nell’azione fuori scena, spesso raccontate da altri, o a posteriori. Per paradosso, questo mi ha consentito di costruire delle figure più complesse, perché soggette a essere raccontate per sottrazione, e per certi versi mi ha obbligato a un lavoro accurato di scavo, di ricerca nella memoria e nei confronti col reale, per trovare caratteri che facessero da modello, fra le amicizie e le figure femminili che ho conosciuto. Elena, Anna, Rosa Slomp e Nadia Turincev sono figure che ho amato molto, ciascuna diversa, ciascuna con necessità molto forti e decisioni dure da prendere. Sicuramente sono state più complesse da caratterizzare rispetto ad altri personaggi, ho scritto e riscritto molte volte dialoghi e descrizioni, non solo per raggiungere una maggior accuratezza e precisione, ma anche per comunicare quel senso di mistero e di in-finitezza che spesso provo davanti al femminile.  

7. Essendo lei anche autore cinematografico può riassumerci brevemente i passi più importanti che l’hanno portata a diventarlo e, se può, citare tre romanzi che desidererebbe vedere sul grande schermo? Quanto dovremo attendere prima di avere trasposto anche “Giochi cattivi”? Personalmente sto già scalpitando.

M.D.: Il mio primo amore è stato senza ombra di dubbio la letteratura, sebbene sia arrivato relativamente tardi almeno nei confronti di coetanei che magari in casa avevano una maggior disponibilità di romanzi e racconti, magari anche per bambini. Io ne ho avuti pochi all’inizio e poi sempre di più, mentre la televisone, nelle abitudini famigliari è sempre stata presente. Però a differenza di oggi, i pochi palinsesti disponibili erano pieni di film di qualità e d’autore, magari vecchi e vecchissimi. Per questo sono stato esposto al cinema, tramite la televisione, fin da subito: ho fissati nella memoria i pomeriggi pre-estivi quando insieme a mia madre vedevo pellicole in bianco e neo della vecchia Hollywood e poi il cinema degli anni settanta. Mi ricordo una volta in cui giocavo con i Lego, e intanto seguivo Fitzcarraldo di Herzog. Dovevo avere non più di sette anni. I miei genitori mi hanno portato tanto al cinema, secondo i loro gusti di allora, e poi le amicizie dell’adolescenza mi hanno consentito esperienze cinematografiche diverse. Ma il mio percorso, che si è fin qui sviluppato fra letteratura, teatro e cinema, praticandoli tutti con fatica e passione, è molto più complesso ed è arrivato, non da fruitore ma dal lato artistico, molto più tardi, dopo una laurea in fisica, esperienze da ricercatore scientifico, una lunga storia da docente, ed è un cammino ancora in corso, sicuramente incompleto. Ho scritto film di finzione e diretto documentari e spettacoli teatrali. Per quanto riguarda “Giochi cattivi” non posso ancora dire se diventarà un film. Oggi è difficile arrivare in fondo a questo tipo di percorso che è sempre lungo, e il romanzo è in giro da poco tempo. Sembrerebbe una buona storia per il cinema, ma si vedrà. 
Tre romanzi che mi piacerebbe vedere al cinema? “Il mio nome è Rosso” di Pamuk, sarebbe una bella sfida, “Open” di Agassi (e J.R. Moehringer), “Stoner” di Williams.  

8. Scrivere romanzi di formazione o, in generale, trattare il tema del periodo di transizione che porta prima all’adolescenza e poi all’età adulta è davvero complesso: come ha deciso di costruire il suo romanzo proprio partendo da questo presupposto? Le è mai capitato, durante i tre anni in cui ci ha lavorato, di provare paura o timore e le venisse voglia di tornare indietro?

M.D.: Normalmente inizio a scrivere un romanzo davvero quando ho un’idea abbastanza chiara di  cosa voglio raccontare e di quale sia la mia storia. Altrimenti non inizio neppure. Devo vedere i personaggi, devo conoscerli bene, devo sapere cosa accadrà. E’ una vista dall’alto mancano i particolari, ma molto di ciò che racconterò è già lì. Poi inizia la fatica vera, che è quella di dare un corpo fatto di parole alle immagini e alle emozioni viste e provate. Nel corso dei tre anni in cui ho lavorato al romanzo ho avuto molti cedimenti, ripensamenti e interruzioni. Quando le cose non funzionano ti fermi. Poi devi ripartire. Tante volte  devi cambiare oppure tagliare – anche in questo caso è successo – blocchi interi, eliminare personaggi a cui ti eri affezionato. Io mi muovo nella scrittura in un equilibrio fra istinto e consapevolezza, ma quasi sempre è un equilibrio da trovare, non è dato in partenza. La paura di non riuscire, nella scrittura e nella regia, è una compagna di viaggio instancabile, bisogna tenerla presente. Per fortuna quasi sempre si può tornare indietro, ripensarci, ripartire. Io comunque non mi sento mai particolarmente esperto, e ogni volta che inizio un progetto nuovo mi sembra sempre che sia il primo. Nel caso della scrittura è proprio come se dovessi imparare da zero a scrivere, come se non avessi scritto nulla prima.   

9. Non so se posso spingermi a tanto ma…può già parlarci di un eventuale prossimo progetto? Scriverà ancora presto? 


M.D.: I miei progetti letterari partono da storie che sedimentano a lungo. L’idea di base per questo romanzo è nata circa otto anni prima di vederlo pubblicato. Per questo motivo esistono da tempo, anche da prima dei progetti che sono arrivati in fondo, diverse idee che chiedono di vedere la luce. Spesso decido su quale investire il mio tempo, un tempo lungo, quando ho la sensazione di essere in grado di arrivare in fondo, che significa avere ben chiaro cosa accadrà, come dovrò scriverlo. E devo trovare una vera necessità per iniziare. Ora non ho ancora deciso, ma so che riprenderò a scrivere molto presto. 

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